Ad ogni pagina la sentivi avvicinarsi. Il suo nome è celebre e inseparabile da quello di Nelson Mandela, che vi fu recluso per 18 dei 27 anni totali di detenzione. Gli anni bui, come titola un capitolo dell'autobiografia "Lungo cammino verso la libertà". Alla fine è arrivata, ed è stato un annuncio meno solenne, ma più brutale, secco, desolante, di qualsiasi iscrizione infernale. Cancellate bianche, guardie bianche, grida boere così violente da avere una tinta cromatica di dolore. Bianche. I soliti annunci di tutti i lager, su vita e morte, i soliti, orrendi ghigni dei capò, i mostri del potere. I ricordi terribili dell'infanzia su "esiquithini", l'isola delle tradizioni orali xhosa. L'unica isola, Robben Island. Quando da Città del Capo navigherai verso il suo profilo piatto, un tempo colonizzato dalle foche da cui trasse il nome olandese, sentirai un fremito nel sangue. Simile a uno sbattere di grate, a un urlo di comando, a una risata violenta dei baas, i padroni, come pretendevano di essere chiamati gli efferati secondini. La prigione di massima sicurezza, con gli enormi massi di pietra grigia, ti sembrerà un fortino dove ogni speranza pare destinata a inaridire, schiacciata dal fato sordo. Eppure qui Mandela continuò a lottare e a confidare nella giustizia in nome del suo popolo e del continente africano. Un luogo di repressione divenne un'accademia dello spirito e della politica, oggi Patrimonio Unesco per il suo lascito imperituro. Di civiltà, eguaglianza, libertà.
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