Una delle dimensioni che Bruce Chatwin indaga con maggiore attenzione nel suo capolavoro "In Patagonia" è quella umana. Vicende di immigrati che hanno un ricordo nebuloso della loro patria, storie di successi e fallimenti, episodi tragici che finiscono per farsi piccolissimi al cospetto dei paesaggi immensi, segnati da ere incommensurabili alla nostra limitata misura. Al pari di tutti i veri scrittori di viaggio, da Erodoto in poi, che leggono i luoghi visitati ascoltando narrazioni, tradizioni, testimonianze. Così ad ogni pagina ci troviamo ora avvolti dalla tranquillità domestica di una famiglia gallese, ora in compagnia di un gaucho malinconico o di un peone ubriaco, di un mandriano scozzese stanco di vento e solitudine, oppure a scoprire la biografia di José Menéndez, l'asturiano che in compagnia del genero ebreo costruì un impero sull'allevamento ovino introdotto a fine 800 in Patagonia da un commerciante inglese di Punta Arenas, la capitale cilena della Terra del Fuoco. Chatwin descrive anche il sepolcro dello scaltro imprenditore del bestiame, nel cimitero della città, una riproduzione in miniatura del monumento neoclassico a Vittorio Emanuele II sito a Roma. Una visita a questo angolo elegiaco, con i suoi cipressi smussati, ti regalerà una galleria di volti e memorie europei, ormai impastati di "magallanidad", l'attaccamento a questo lembo sfrangiato d'America cantato da Jose Grimaldi Acotto, il trovatore della Terra del Fuoco qui sepolto. Alla fine del mondo...
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